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Storia della mia gente di Edoardo Nesi - Bompiani

“Nel settembre del 2004, il 7 settembre del 2004, ho venduto l'azienda tessile della mia famiglia. Nata come tessitura negli anni vent...

“Nel settembre del 2004, il 7 settembre del 2004, ho venduto l'azienda tessile della mia famiglia. Nata come tessitura negli anni venti, era diventata lanificio subito dopo la guerra, col nome piuttosto impegnativo di Lanificio T.O. Nesi & Figli S.p.A. Dietro di me, mentre scrivo, è appeso l'ingrandimento di una foto in bianco e nero della tessitura, datata 1926. Tre telai giganteschi sono circondati da uomini, donne e bambini che fissano attenti l'obbiettivo della macchina fotografica. Da una parte,  con l’occhio fosco e il cappello sulle ventitré, c’è mio nonno, Temistocle Nesi.” Con queste parole inizia Storia della mia gente, praticamente un corto circuito, dato che si inizia con la fine del romanzo, ovvero la fine di un impresa familiare fondata per i figli, per i nipoti, per il futuro.

Nesi (Premio Strega 2011 proprio con Storie della mia gente) prova, e ci riesce benissimo, a romanzare quello che è stata la sua esperienza personale di imprenditore, gestendo l'azienda tessile  ereditata dal padre che a sua volta l'aveva presa dal nonno, così indietro nel tempo. L'ambientazione è quella della celebre città toscana dei “cenci” Prato, anzi il principale polo industriale del tessile Made in Italy, e poi ci sono gli anni del boom, la grande crescita economica, i grafici a fine anno sempre in salita che raccontano la famosa Italia da bere. Trasformatasi in pochi anni in un feudo della mano d'opera a basso costo, e dove vengono a galla tutti i limiti di una globalizzazione liberista da tanti osannata come ultima via post capitalista. E poi in questo polo industriale si sono insediati i cinesi che hanno in parte contribuito al fallimento della sua attività, e per questo racconta il suo astio per la concorrenza sleale di cui in parte si vergogna. È consapevole di trovarsi davanti dei migranti alla ricerca di una vita migliore, che preferiscono fare turni di lavoro massacranti in condizioni disumane ma comunque preferibili a quanto si sono lasciati alle spalle. E facile leggere tra le righe amare riflessioni che portano all'epilogo della chiusura della fabbrica, il fallimento di tutto il resto, di scelte economiche errate e irragionevoli fatte da una classe politica e imprenditoriale inadatta che non ha saputo vedere l'implosione di un sistema che non c'è più. Questa lettura e anche un atto d'accusa nei confronti di un lavoro che non c'è più e la letteratura ha il dovere di svolgere  il suo ruolo di denuncia anche perché questa è la mia gente. La mia gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare. Davide Mele

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